Confronto con genitori, docenti, università.
Prima di entrare in maniera specifica nel merito dell’argomento, mi sia consentita qualche breve considerazione introduttiva.
Al presente paragrafo desidero dare un taglio speciale, differente ai precedenti e a quelli che seguiranno. Mi piacerebbe immaginare di trovarci tutti assieme, guardandoci in faccia e conversare serenamente con la predisposizione all’ascolto nella maniera più tradizionale della “maieutica socratica”, sugli effetti negativi derivanti da un “comportamento iperprotettivo” nei confronti del figlio, dell’alunno, dello studente universitario privo della vista. Il presente paragrafo, infatti, interessando l’intero processo della crescita psico-fisica, dell’educazione, della conoscenza del mondo e dell’autonomia personale, coinvolge l’intera organizzazione sociale.
Per avere un quadro alquanto attendibile sull’attuale contesto socio-culturale e lavorativo delle persone con minorazione visiva delle ultime generazioni, assieme ad alcuni amici – utilizzando i mezzi più semplici a disposizione, il PC e lo smartphone, abbiamo condotto su un territorio alquanto vasto una ricerca sicuramente approssimativa e non capillare, ma interessante, tanto da ritenerla alquanto allarmante.
Dai dati raccolti si ricava l’impressione che, soprattutto negli ultimi quarant’anni, le tante apprezzabili considerazioni di un tempo della società nei confronti dei non vedenti stiano venendo meno. È vero che gli stili di vita odierna sono cambiati e che non si deve guardare al passato con nostalgia e rimpianti, ma qualche analisi merita d’esser fatta, se non altro per non cancellare dalla memoria le tante e tante esperienze positive affermatesi in tutti i settori, quello del lavoro, della scuola università compresa e del diritto. Potrebbe essere anche vero, però, che – a causa della nostra scarsa presenza sulla quotidianità della scena sociale, considerato che tanti o molti si sono sprangati tra le quattro mura domestiche – il mondo oggi volge lo sguardo nel verso opposto in merito alla cecità e, non conoscendoci, incrementa sempre più atteggiamenti di indifferenza e di non curanza, come se fossimo invisibili. Per contro, poi, quando siamo presenti in famiglia, nella scuola o all’università, e sempre a causa di una disinformazione generalizzata, i genitori nei confronti del figlio, la scuola con gli alunni e l’università con i giovani studenti, adottano comportamenti eccessivamente benevoli o iperprotettivi, tant’è che, nonostante la copiosa normativa vigente dello Stato italiano, oggi numerose famiglie di figli privi della vista brancolano ancora nell’incertezza e nella mancanza di informazioni. Né la scuola, né l’università e ancor meno le associazioni di categoria – salvo che queste ultime non lo facciano soltanto per il “dio danaro” – intervengono per colmare tali carenze.
Nella scuola dell’obbligo, poi, tanti docenti che si specializzano mediante lo strampalato e grottesco attuale TFA per il sostegno didattico, non soltanto sono spesso digiuni di qualsiasi formazione sulla disabilità visiva, ma, ciò che preoccupa ancor di più, è la loro carenza in tiflopsicologia, nella metodologia e nella didattica tiflologica. Non intendo ovviamente trovare alibi di discolpa nei loro confronti, però mi domando: chi avrebbe dovuto far vivere agli specializzandi tali specifiche e straordinarie esperienze, se le università italiane sono totalmente prive di tali figure professionali?
Introduciamoci ora nell’argomento, affrontandolo con occhio critico sì, ma con serenità e obiettività, domandandoci, appunto, quali considerazioni la società odierna ha nei confronti di chi non vede?
Chi affronta quotidianamente i vari problemi educativi sa bene che nell’atto dell’educare, qualsiasi intervento inadeguato o tardivo può produrre inevitabilmente risposte difformi dalle finalità che si vorrebbero conseguire. In presenza di un bambino privo della Vista, tale assioma è ancor più evidente, tanto da tener sempre desta l’attenzione e l’impegno dei genitori, degli educatori e del mondo della politica e del sociale. Anche perché, come si diceva appena sopra, alcune strategie educative, quando giungono inadeguate o tardive, possono far assumere nel piccolo privo della Vista comportamenti inusuali che, in tiflologia sono definiti “ciechismi” o “blindismi”.
Mi corre l’obbligo di chiarire immediatamente, però, che tali atteggiamenti non sono in nessun caso manifestazioni innate ed ancor meno strettamente connesse all’assenza della vista, altrimenti sarebbero riscontrabili in tutte le persone prive della sensorialità visiva. Le manifestazioni sulle quali ci soffermeremo hanno origine da cause ben precise che, nel corso di queste mie considerazioni, cercheremo di chiarire, al fine di evitarne l’insorgenza o, per lo meno, di contenerle sul nascere. E, per comprendere meglio l’argomento, ritengo che non sia assolutamente una perdita di tempo rileggere alcune mie precedenti considerazioni riguardanti l’assenza o il ritardato intervento sul processo dell’“educazione senso-percettivo-motorio” e sui suoi effetti derivanti.
Da qui mi proviene il dovere, da tiflologo consumato, di rivolgere a tutti i genitori e a tutti i docenti appartenenti ad ogni ordine di scuola, università compresa, una premurosa raccomandazione. Spesso, molto spesso, in presenza del figlio, dell’alunno o di un giovane studente privo della vista si è particolarmente buonisti, indulgenti, accomodanti, accondiscendenti, tolleranti e permissivi, non valutando quasi mai quanto possano essere controproducenti quei comportamenti iperprotettivi. E, da un certo punto di vista e da attento osservatore, riesco a comprendere e giustificare persino taluni comportamenti attuati in famiglia; ma nella scuola e all’università non sono assolutamente ammissibili! Non si può promuovere o alimentare false illusioni, utilizzando il metro del buonismo – e per non essere ulteriormente sgradito per la mia franchezza, avrei detto subito con il metro del “pietismo strisciante”. Non si può ignorare – anche perché lo affermano le scienze neurologiche e non soltanto la psicologia sperimentale, ed io lo sottoscrivo convintamente – che la cecità non comporta alcuna riduzione o una alterazione delle facoltà dell’intelletto, salvo che, a rallentarne o a deviarne il corso, non giungano tardivamente e per vie distorte quegli interventi necessari per potenziare ed educare i “sensi residui”, soltanto mediante i quali si può acquisire un corretto portamento posturale, la mobilità in piena autonomia personale, il pensiero critico e decisionale.
Ed allora, si ricominci a ripensare con mente sgombra da strutture mentali plasmate all’ombra dei tanti pregiudizi, preconcetti e stereotipi, che è vero che quel figlio, quell’alunno o quel giovane studente universitario è privo della vista, ma ciò non deve indurre a credere che è anche privo di talune facoltà intellettive per poter apprendere alla pari degli altri suoi coetanei. È auspicabile, semmai, che, convinti di tale assioma, con tutte le strategie possibili si cerchi di potenziarle, di sollecitarle, incalzarle, incoraggiarle, sostenerle, incentivarle, ma mai disconoscerle, ignorarle o mortificarle redigendo Piani Educativi Individualizzati che non prevedono, per esempio, attività motorie, manipolative, di disegno in rilievo, di geometria ragionata, di potenziamento dell’orientamento spaziale e dell’autonomia personale. Sarebbe davvero auspicabile, poi, che tale criterio di giudizio di equità, alla pari degli altri studenti, nell’assegnazione del voto fosse mantenuto anche presso le università e non mosso dall’effetto anestetizzante del buonismo o, addirittura, di un mal celato pietismo.
Ma, è sempre così facile comportarsi secondo i canoni della più corretta educazione senso-percettiva-motoria?
Sono il primo a riconoscerne le difficoltà e gli impedimenti che spesso bloccano i familiari ad attuare comportamenti più intransigenti e meno permissivi. Ma la strada della coerenza è l’unica e, almeno inizialmente, sembrerà quella lastricata da mille difficoltà, E, come già sottolineato innanzi, comprendo bene, gentilissimi amici genitori, la vostra voglia d’intervenire quanto prima per sostenere quel vostro figlio; ma siate sempre cauti e rifuggite sempre dalle facili tentazioni “dell’improvvisazione” o del “fai da te”.
Un po’ più professionale diviene, invece, l’argomento, quando dall’ambito familiare si sposta a quello scolastico. Non ritengo in alcun caso giustificabili, infatti, le estemporanee fanfaronate o “trovate” di taluni educatori che, per apparire più “intraprendenti, creativi o ingegnosi”, ignorano ogni principio del “buon senso” o quelli basilari della psicopedagogia. Nella maggior parte dei casi, sono proprio quei tali stravaganti interventi, contrari spesso a qualsiasi principio della “tiflodidattica”, che minano alla base le fondamenta dell’intero processo di crescita di quel piccolo, sia sul piano motorio, sia su quello apprenditivo che conoscitivo.
Non pensiate che voglia assumermi un ruolo che non mi compete, tuttavia vi esorto a dedicarvi per quel bambino che vi è stato affidato, il massimo impegno e il doveroso rispetto, poiché, in gran parte da voi e dal vostro intervento, esente da pregiudizi, da non dovute concessioni e privilegi – figli spesso di una visione non professionale – dipenderà il suo futuro. Ed allora, non esoneri da alcune discipline, non facilitazioni di programma, nel PEI, non sgravi di impegni scolastici, ma normalità e inflessibilità nelle richieste e nell’impegno dell’alunno, alla pari degli altri coetanei; né si abbia mai alcuna perplessità o timore di richiamare la sua attenzione e correggere atteggiamenti posturali scorretti o anomali. Dal vostro lavoro responsabile, intransigente e privo di qualsiasi bigottismo farisaico – condotto assieme a quello della famiglia – dipenderà la “normalità” quotidiana e l’autonomia di quella futura persona adulta.
Per assumere, però, tale comportamento uniforme nei confronti di tutti gli alunni, sarà opportuno disporre di una formazione pertinente e chiara del proprio ruolo e della propria funzione, come sarà altrettanto importante il sapersi approcciare al problema educativo con serenità d’animo, superando la preoccupazione o il dubbio che il piccolo, mancante della vista, possa avere difficoltà nell’apprendimento; o che qualsiasi attività di movimento possa nuocere alla sua incolumità; che possa costantemente inciampare in ostacoli reali o presunti o che spostandosi da un ambiente all’altro possa perdere quei punti di riferimento precedentemente acquisiti o che possa addirittura smarrirsi persino in uno spazio limitato e circoscritto.
Ma potrebbe accadere persino che – e perciò mi permetto di rivolgere un accorato invito a prestare la massima attenzione – perché quel comportamento insicuro, dubbioso e guardingo dell’adulto potrebbe essere stato già colto dal piccolo. Avvertendo tale percezione, elaborerebbe mentalmente sentimenti di disistima, di frustrazione, di limitatezza, di condizionamento e di disincentivazione a manifestare i suoi desideri, le sue aspettative, i suoi bisogni. Con il passar del tempo, inoltre, si convincerà anche che tutto gli è dovuto perché “cieco”.
Il bambino diverrà sempre più pigro e svogliato a ‘muoversi” e a “fare qualcosa” di sua iniziativa, divenendo sempre più dipendente dagli altri, mentre i semplici desideri si trasformeranno in incalzanti pretese, esigendo che siano gli altri a soddisfare con tempestività le sue necessità. Quello stato di disarmante indolenza, poi, si manifesterà sempre più accentuata, palesandosi non soltanto sul versante dell’autonomia motoria, ma anche a quello della conoscenza, della cultura, dell’interesse per qualcosa, nell’assumere decisioni autonomamente.
Il mio appello, pertanto, è rivolto soprattutto ai genitori, perché non dimentichino che, sino a quando il piccolo sarà tenuto sotto una infrangibile campana di vetro, in atteggiamento iperprotettivo, al riparo dalle piccole insidie della vita quotidiana e dagli eventuali rischi, non ponendolo mai dinanzi agli imprevisti, perché impari ad affrontarli e superarli autonomamente, non apprenderà mai il “mestiere” di prendere iniziative da sé, né sviluppare e sperimentare le sue risorse intrinseche, le sue abilità, le potenzialità latenti e potenziare sempre più la propria autostima.
È il momento di riprendere in mano la situazione, genitori e colleghi e non abbiate mai timore di risvegliare il vostro bimbo da quello stato di apatia e di indolenza nel quale probabilmente si è già adagiato.
Fategli sperimentare che le difficoltà si possono e si devono superare. Nel frattempo, incoraggiate costantemente l’autostima, ma considerandolo un “figlio (o un alunno) normale” e non “speciale o disabile”; facendogli comprendere, però, che nulla gli è dovuto, pur se privo della Vista. Abituatelo, semmai, sin dai primi anni, a credere che dovrà conquistarsi tutto con il proprio contributo e la propria partecipazione diretta. Insegnategli a chiedere, a chiedere come gli altri vostri figli e, se necessario, a ricevere anche qualche rifiuto, qualche “no”. Inculcategli di non doversi mai bloccare dinanzi agli insuccessi o alle sconfitte, ma ad impegnarsi a rinvenire autonomamente soluzioni per superare quei piccoli intoppi. Tali stimolazioni saranno imprescindibili e vantaggiose per sperimentare le sue intrinseche abilità e muovere verso nuovi traguardi.
Si cominci, intanto, a non perder tempo, considerato che i primi anni di vita del bimbo costituiscono quel periodo importante e delicatissimo che gli psicologi e i pedagogisti ritengono il più proficuo e fecondo per l’attività conoscitiva.
Abbiate sempre presente, però, che il bambino privo della funzione visiva, non è attratto allo stesso modo di quello che vede dalla presenza degli oggetti circostanti e dalle innumerevoli stimolazioni luminose e cromatiche che provengono proprio da quegli oggetti. Può accadere, quindi, che relazionandosi con l’ambiente fisico circostante del quale non ha una “visione d’insieme”, il bimbo si comporti in maniera differente dal coetaneo che vede e sfoghi le sue energie interiori “in maniera centripeta” e non “centrifuga”,rivolgendole verso se stesso. Non cogliendo la presenza degli oggetti, poiché insonori, gioca con alcune parti del proprio corpo e con le mani in maniera più specifica, battendole tra loro o sventolandole nell’aria circostante.
Attorno al compimento del primo anno – considerato che la deambulazione avverrà con qualche mese di ritardo, prendete le sue manine, perché si senta rassicurato, ed aiutatelo a stare nella posizione da seduto e successivamente in quella eretta e a muovere i primi passi. Insegnategli successivamente a rotolarsi e di gattonare sul lettone o sul pavimento. Non aspettatevi che lo faccia da sé: in lui manca quel feedback visivo che induce normalmente il bambino che vede ad imitare o emulare l’adulto. Verso il terzo anno, insegnategli ad accennare i primi passi di corsa, facendovi rincorrere seguendo la vostra voce o il calpestio dei vostri passi. Abituatelo, poi, come già detto, a chiedere e ad attendere, per il tempo necessario, l’appagamento di un suo bisogno.
Con il passar del tempo, educatelo a bere dal bicchiere e a mangiare, utilizzando le posate (cucchiaio e forchetta all’inizio, il coltello sarà usato successivamente quando sarà più grandicello. Avvezzatelo a vestirsi e svestirsi da solo, secondo le usuali sequenze logiche; ad allacciarsi e slacciarsi le scarpe e ad abbottonarsi e sbottonarsi gli indumenti. Fatevi aiutare ad apparecchiare e sparecchiare la tavola, assegnandogli l’incarico di porre su di essa piatti, bicchieri e posate. Costituisce un esercizio infallibile per la sua autostima. E non sottovalutate mai l’importanza di accompagnare il non vedente presso una fattoria, affinché conosca “dal vivo” i vari animali in essa esistenti – acquisendone una conoscenza diretta e reale – lasciandosi alle spalle la paura di toccarne altri in circostanze analoghe.
Se, poi, dovesse trattarsi di una bambina, fate sorgere in lei il desiderio e il piacere di esprimere delle preferenze nella scelta dei vestiti.
Proseguendo, non sarà difficile comprendere che, quanto più appropriata e tempestiva sarà la vostra azione e quanta più fiducia e libertà concederete al bambino, tanto prima si manifesterà in lui quella spontanea spinta interiore a “fare da sé”, attivando l’interesse, il piacere e la curiosità per acquisire nuove conoscenze, presupposti imprescindibili per superare e rompere il cerchio ferreo dell’ozio, della incertezza, della timidezza, dell’apatia.
Non intendo caricare alcuno di ulteriori inquietudini o tensioni – già sono tante quelle che avvertite a causa della presenza del vostro bimbo – ma non posso non rammentarvi che il protrarsi per lungo tempo della inattività motoria o dell’isolamento ambientale e sociale può indurre il piccolo a rifugiarsi in talune stereotipie che sono tipiche, ma non generalizzate, della mancanza della vista.
Tali inconsuete manifestazioni, in ogni caso, non devono divenire assolutamente motivo di ulteriore inquietudine, soprattutto se si interviene con tempestività, poiché esse sono semplicemente delle modalità comportamentali di autostimolazione, per compensare una assenza o una povertà di sollecitazioni provenienti dal mondo circostante.
Tali inusuali manifestazioni – già definite in precedenza “ciechismi” o “blindismi” od anche “stereotipie”, non sono, però, presenti in tutte le persone prive della vista, ma non per questa ragione devono essere in alcun caso sottovalutate, anche se di esse non si ha una immediata consapevolezza. È doveroso mantenere sempre le antenne dritte e prestare la massima attenzione, poiché è accaduto spesso che, per inesperienza o per superficialità, tali manifestazioni siano state interpretate come incipienti “atteggiamenti autistici”, con i quali, però, esse non hanno assolutamente alcuna causa in comune.
Il piccolo, infatti, se spronato o sollecitato, non resterà assolutamente “chiuso in se stesso”, né sarà riluttante alla comunicazione con le persone e con l’ambiente. Questi, infatti, accetterà volentieri gli stimoli, le esortazioni ed anche i richiami, a seguito dei quali riprenderà la sua corretta posizione posturale, interrompendo quei movimenti innaturali del corpo o di alcune sue parti. È sempre il momento propizio perché i genitori intervengano con strategie efficaci, proponendo al piccolo attività alternative che possano catturare la sua attenzione e fargli interrompere la sequenza motoria ripetitiva dei suoi gesti.
In ogni caso, perché si abbia piena consapevolezza di quanto sia importante l’argomento che si sta trattando, è opportuno, conveniente e doveroso che si sia mentalmente convinti che quell’“atteggiamento iperprotettivo” – adottato in maniera quasi generalizzata negli ultimi cinquant’anni da un numero sempre crescente di famiglie, e non soltanto da quelle con figli disabili – guidate non dal buon senso ma dalla dilagante disinformazione tiflologica, recherà un enorme danno a quel loro figlio, contribuendo ad avvezzarlo al disimpegno prolungato, alla sedentarietà, all’attendersi tutto da tutti, poiché si percepirà “cieco incapace”. Ed allora, si cominci a preoccuparsi seriamente, soprattutto quando quel piccolo dovesse immergersi in un illusorio stato di apparente tranquillità interiore. Secondo la mia lunga esperienza, è da ricondursi proprio a tale condizione di apparente appagamento la comparsa degli aspetti più negativi della cecità, i “ciechismi”, atteggiamenti che le persone che vedono colgono di noi e che stigmatizzano immediatamente.
Giunti a questo punto, però, e per avere un quadro sempre più chiaro e comprensibile della situazione in esame, tutti assieme proviamo a riflettere sulle nostre stesse esperienze di genitore, facendo riferimento anche a qualche brevissimo parallelo tra il bimbo che vede e quello privo della vista, anche se non sono uno psicologo di professione.
Si può affermare che – e numerosi illustri ricercatori in psicologia sperimentale lo hanno largamente dimostrato – il bimbo che vede già dai primi mesi di vita, in maniera autonoma e senza sollecitazioni esterne, ma soltanto mediante il movimento naturale degli occhi, avvia il suo sviluppo sensoriale percettivo che, con il passar del tempo, si tradurrà in vera conoscenza. Questi, dalle prime settimane dalla nascita, mediante l’organo visivo – anche se ancora non definitivamente strutturato per espletare pienamente le sue funzioni – inizia a relazionarsi visivamente prima con i piccoli ambienti domestici, ma ben presto, proprio grazie all’interazione dinamica e costante con l’ambiente fisico, affettivo-parentale-relazionale, la semplice visione contribuirà ad organizzare alcune capacità più complesse.
Per il bambino che non vede, invece, nelle prime settimane di vita, l’approccio con l’ambiente circostante, tutto quel che non ha contatto con il suo corpo, resta ancora fuori dalle sue sensazioni. Con il passar del tempo, però, la maggior parte delle sue conoscenze sono apprese sotto la spinta delle sollecitazioni degli adulti. Per il nostro piccolo, infatti, non avendo la possibilità di osservare, imitare od emulare né i comportamenti né gli atteggiamenti facciali e posturali delle persone che lo circondano, quei gesti, quelle movenze e quelle espressioni facciali che gli adulti gli rivolgono quasi inconsapevolmente possono ugualmente essergli insegnate mediante un leggero sfioramento delicato di una carezza, di un piacevole solletichino sulle labbra o sul pancino o portando la manina del piccolo alla propria bocca…
Certo, sarà senz’altro un lungo, paziente e amorevole esercizio, ma ritengo essere la strada migliore per far apprendere a quel bimbo espressività nel volto, leggiadria nei gesti, euritmia e armoniosità corporea nella deambulazione.
La immaginaria ma cordiale conversazione con voi volge al termine. Ritengo, però, che ora sia più semplice per tutti comprendere le ragioni o le cause che la persona priva della vista talvolta assume atteggiamenti inconsueti e inesistenti tra le persone che vedono.
Mi, prima di salutarci, mi sembra doveroso esaminare assieme a voi almeno alcune manifestazioni che si possono catalogare con la definizione di “ciechismi”.
Ed allora: il non vedente – non essendo attratto allo stesso modo del bambino che vede dalla presenza degli oggetti circostanti o dalle innumerevoli stimolazioni luminose e cromatiche da essi provenienti – anziché relazionarsi con ciò che anima l’ambiente circostante sfoga le sue energie interiori “in maniera centripeta” e non “centrifuga”,rivolgendole su se stesso. Non cogliendo la presenza degli oggetti, soprattutto di quelli insonori, gioca con alcune parti del proprio corpo e con le mani in maniera più specifica, battendole tra loro o sventolandole attorno a sé.
Ma la caratteristica più frequente e appariscente che connota quella specifica persona – ma vi prego di non attribuire od estendere mai tali prerogative a tutte le persone prive della vista – consiste nel portare in avanti le mani a mo’ di paraurti, temendo di sbattere in ostacoli reali o presunti. Quel bambino o quella persona, non essendo stata mai invitata o richiamata a portar giù le mani, sarà sempre indotto a spostarsi con tale portamento posturale sia negli ambienti all’aperto, ma talvolta persino nell’ambiente domestico che dovrebbe pur conoscere bene. La causa che determina tale spettacolo sicuramente non edificante, ci induce a ritenere che quella persona non ha ricevuto negli anni della sua infanzia una corretta “educazione percettivo-sensoriale aptica”. È l’acquisizione di tale prerogativa che consente alla persona priva della vista non soltanto di “avvertire” o di “percepire” gli ostacoli, ma, addirittura, di “discriminarne” la natura ad una ragionevole distanza, ancor prima di sbatterci contro.
Non è raro, inoltre, osservare un non vedente che cammini voltando leggermente la testa verso destra o sinistra. Tale postura è da attribuirsi ad una precaria maturazione o ad una scarsa interiorizzazione della spazialità percettiva-aptica e, quindi, ad un rapporto dinamico con lo spazio circostante; per non dire che potrebbe essere causato anche da un lieve deficit di udito di un orecchio.
Figlia della stessa incertezza è l’atteggiamento di coloro che, nel gestire e percorrere lo spazio euclideo, non riescono ancora ad interiorizzare direzioni e dimensioni spaziali e, pertanto, nell’intento di perdere l’orientamento, percorrono il tragitto, effettuando brevi passi non in linea retta, ma con piccoli spostamenti verso destra e sinistra. Per le medesime ragioni, vi è che deambula non con i piedi vicini o paralleli, ma con le gambe un po’ divaricate o con le punte dei piedi rivolte verso l’esterno.
È possibile, tra le tante altre ipotesi, che, durante la prima infanzia, alcuni bambini abbiano sofferto dolori agli occhi, sofferenza che, nel tentativo di attenuarla, abbiano fatto pressione sui bulbi oculari con i polpastrelli del pollice e dell’indice. Tale gesto, quasi inconsapevole, essendo stato ripetuto per periodi alquanto lunghi, si trasformerà in una deprecabile abitudine, anche quando il disturbo o la sofferenza siano scomparsi del tutto. Ma potrebbe esserci anche una ulteriore causa: potrebbe esser possibile che, durante i primi anni di vita, quei bambini abbiano sperimentato una particolare fotofobia, come quella intensa del sole o di altre sorgenti luminose artificiali. È possibile che costoro, in maniera del tutto inconsapevole, abbiano cercato di attenuare tale sofferenza portando le mani agli occhi, coprendoli con le dita. Costoro, in seguito – anche quando quel flebile barlume di visus sarà scomparso totalmente – è possibile che continuino a portare istintivamente le dita sugli occhi.
Spesso ci si imbatte, poi, in persone che, avendo esercitato poco o nulla le mani come strumento insostituibile per “conoscere” del mondo tridimensionale, continuano ad manifestare, anche nell’età adulta, mani molli e flaccide dalle quali si legge immediatamente un certo disagio od un evidente timore, un palese disagio, persino un’angoscia nel toccare.
Gli esempi in sintesi riportati – ma ve ne sono tanti e tanti altri – devono essere corretti ed eliminati, se si è fermamente convinti che anche le persone prive della vista sono in tutto paragonabili a coloro che vedono e che alla stessa stregua devono adottare comportamenti e atteggiamenti analoghi.
A chi spetta tale compito? A tutti: a tutti noi. A tutti coloro che si relazionano quotidianamente con la persona priva della vista; in particolar modo, però, alle due più importanti agenzie educative: la famiglia e la scuola. Intervenire per correggere atteggiamenti o comportamenti anomali non costituisce una opzione, ma un dovere; così come non prodigarsi per rimuovere le stereotipie significa non essersi liberati da quei pregiudizi che alimentano un inconscio “pietismo”.
Queste nostre odierne riflessioni si concludono qui. Nel seguirmi passo, passo, ho apprezzato molto la vostra attenzione e il vostro interesse. Mi auguro che, ritornando mentalmente sugli argomenti trattati, si rifletta e ci si impegni tutti a considerare la minorazione visiva e le persone che ne sono portatrici non già individui “speciali”, da proteggere, da salvaguardare, tutelare e preservare dalle insidie del mondo, ma persone meritevoli della stessa “considerazione di normalità” e di una “educazione senso-percettiva-motoria-aptica”, tale da consentir loro di potenziare ed educare i “sensi residui” al conseguimento di una soglia sensoriale la migliore possibile. Saranno le condizioni più opportune e propizie per porre ogni persona priva della vista nel presupposto di realizzare una ordinaria socialità, una apprezzabile e dignitosa autonomia personale, tanto nella scioltezza dei movimenti posturali, che nella naturalezza della deambulazione; ma, direi fondamentalmente e soprattutto, nell’assumere decisioni intenzionali per essere gli unici artefici della propria vita.